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Le
radici.
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- Una
comunità arcaica.
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Terrinca
è un paese antico, profondamente conservativo, il cui territorio
ha mantenuto in modo sorprendentemente fresco i caratteri delle
unità demoterritoriali liguri.
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Emilio
Sereni, nel suo corposo saggio "Comunità rurali
nell'Italia antica", ci offre una descrizione
estremamente dettagliata di come fossero strutturate tali entità,
gravitanti tra il vico (villaggio semistanziale invernale) e gli
alpeggi estivi, dove le terre erano utilizzate in modo
comunitaristico.
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I
loro confini erano naturali (fiumi, torrenti, creste di monti) e
inglobavano interi massicci montuosi utilizzati come pascoli
estivi e compascua (terre comuni).
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Il
merito di aver trasposto questi approfondimenti nella nostra zona
spetta a Ubaldo Formentini che, dopo ricerche etnografiche e sul
territorio, scrisse i due lavori “Conciliaboli, pievi e corti
nella Liguria di Levante. Saggio sulle istituzioni liguri
nell'antichità e nell'alto medioevo”; “Monte
Sagro, saggio sulle istituzioni demoterritoriali degli Apuani” .
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I
suoi studi, affiancati in seguito da quelli di numerosi altri
studiosi, ci consentono, attraverso l'analisi comparata, di poter
meglio interpretare alcune antiche istituzioni territoriali, quali
La Cappella, Farnocchia, Stazzema e, appunto,
Terrinca.
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La
formula che ci risulta più funzionale, nell'ottica del filtraggio
attraverso il mondo romano, è quella dell'arcifinius, cioè “un
territorio di frontiera non soggetto a leggi civili ma
a
quelle internazionali”.
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Frontino
nel “De agrorurom qualitate” dice: “... è
delimitato, seguendo regolamenti di vecchia data, da fiumi,
canali, montagne, strade, alberi nella parte frontale, spartiacque
o terreno occupato da un altro agricoltore da più vecchia data”.
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Nel
“De controversiis” invece ci parla di tutte le terre
con confini curvi, chiamate arcifinii, come quelle poste alle
estremità di un campo arato, o promontori, cime di montagne,
corsi di fiumi o qualsiasi zona che sporga" (vedi mio saggio
“La terra delle strade antiche”, pag. 207).
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Come
ebbi già modo di scrivere su alcuni articoli pubblicati sul “Vento
cercine” tra novembre 94 e aprile 95, l'arcifinius fu un
modello territoriale utilizzato dai romani per gestire e,
eventualmente, riassegnare a propri coloni, le zone montuose delle
Alpi Apuane e del vicino Appennino.
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Le
unità demoterritoriali apuane, in tale contesto, venivano prese
integralmente senza neanche la necessità di ritoccarne i confini.
Variava semmai il rapporto con gli indigeni che, qualora fossero
rimasti sul territorio, sottostavano ad un regime di servitù
prediale nei confronti dei coloni, similmente a feudatari e servi
della gleba “ante litteram”.
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Col
tempo però, come accadde appunto anche nei confronti del sistema
feudale, le antiche consuetudini della popolazione ebbero il
sopravvento (e forse neanche mai vennero abolite), perchè
funzionali ed oculate nei confronti della gestione del territorio.
Così accadde per una delle pratiche più antiche e radicate, vera
memoria storica del mondo ligure attraverso i millenni: l'alpeggio.
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L'alpeggio.
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La
consuetudine di portare “in alpes” gli armenti sulle
terre comuni, era il cardine della struttura demoterritoriale
ligure e gli storici classici ne fanno menzione fin
dall'antichità. Lucano ad esempio, pur essendo minutamente
informato su quanto concerneva la catena degli Appennini,
riferisce alle Alpi le sorgenti del Rubicone Anche nelle carte
medievali, come nelle parlate romanze, “alpe” continua
ad essere riferito al “luogo del compascuo estivo”.
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II
prof. Ambrosi ne stigmatizza l'antichità nell'uso in un suo
celebre lavoro (Appunti per servire allo studio dell'oronimo “Pania”
e del demotico “Aprano”, p. 73), mentre E. Sereni,
nell'opera sopracitata, approfondisce in modo pregevole tale
consuetudine, rilevandone la continuità dalla Provenza sino alle
Alpi Apuane ed alla provincia di Bologna all'interno delle
comunità più conservative.
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Il
nome deriva da una base “alp/alb”, di matrice
preindoeuropea e dobbiamo evincere, dalle ricerche dei vari
studiosi, che il suo valore di oronimo fosse, in un certo senso,
secondario rispetto a quello di “compascuo/terra comune”,
indicando piuttosto il “monte del compascuo”, su cui si
esercitava pastorizia e coltura ad uso capione, in territori
gestiti in modo comunistico (per la vastissima bibliografia vi
rimando allo studio citato del Sereni, p. 316, 522, 523, 530, 541
e sgg., 544, 560).
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In
Alta Versilia si ha menzione di questa arcaica consuetudine già
nel XIII secolo. Nello "Strumento di unione e concordia tra i
nobili di Corvaia, di Vallecchia, di castello Aghinolfi e loro
consorti" (R. Archivio di Stato in Lucca. Diplomatico, Tarpea,
tratto da G. Sforza, I nobili di castello Aghinolfi a Montignoso
ed alla Verrucola Bosi, p. 58) del 1219, infatti, tra le
pertinenze dei suddetti nobili, relative a Farnocchia, Pomezzana,
Argentiera (S. Anna), Montebello, Pedona e varie altre comunità,
troviamo “et omnes alpes et agros sive terras agrestes, et
pascua et nemora ecc...”.
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Più
avanti, nello stesso documento, scopriamo anche in che modo tali
alpeggi venivano sfruttati dalle consorterie feudali dell'epoca:
“in quanto alle alpi e alle terre agresti, i signori di
Vallecchia pigliavan le decime, se quelle terre erano lavorate
dagli uomini loro; lo stesso facevano i signori di Corvaia se i
lavoratori erano loro vassalli. Se poi gli uomini che le
coltivavano erano stranieri, o appartenenti ad altri padroni, le
decime erano a comune con le due consorterie” (oh. cit., p.
25).
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Nel
caso di Terrinca e dei suoi
vasti alpeggi, non rientrando nelle pertinenze citate sul
documento a favore dei cattani versiliesi, dobbiamo dedurre che
appartenesse alla seconda categoria e che quindi i suoi abitanti
pagassero delle decime ai nobili, pur mantenendo una dignitosa
autonomia. Tale situazione spiega, ad esempio, perchè Terrinca e
il suo territorio non compaia mai tra le pertinenze che Guido Da
Vallecchia, nei suoi "Libri Memoriales` (seconda metà del
XIII secolo), attribuisce al proprio casato, così come non figura
mai ili nessun documento dell'epoca tra i possedimenti dei
Toparchi versiliesi.
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Tale
situazione di autonomia, retaggio certamente di situazioni remote
e testimonianza di una profonda arcaicità della comunità
terrinchese, viene chiaramente messa in evidenza in una sentenza
del Conte Ranieri Donoratico della Gherardesca, capitano di Pisa
(febbraio 1347), diretta a fissare i confini delle terre soggette
ai nobili di Corvaia. In essa si legge: “In territorio Petrae
Sanctae et eius Vicariae... de supra sicut descenditur ad confines
Terrincae”, dimostrando che quest'ultima delimitava i
confini ma ne era fuori, quindi completamente autonoma (I
Colombani, “Terrinca paese di antiche tradizioni”, p.
18).
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Nei
vari estimi del XIV secolo riferiti a Pietrasanta e alle sue
vicinìe la posizione di Terrinca continua a mantenere tale
distacco, non comparendo mai esplicitamente tra i paesi
direttamente sottoposti alla Vicaria, mentre invece si hanno
ripetute menzioni di quelle comunità (Stazzema, Farnocchia,
Pomezzana, Val di Castello e Pietrasanta) precedentemente
sottoposte ai nobili feudatari (Inventario Regio Archivio di
Lucca, documenti relativi al 1333. 1376, 1377), facendo intendere
come le nuove istituzioni dei demoterritoriali mostrassero
continuità con le precedenti, pur essendo mutata la situazione
politica in seguito alla conquista da parte del comune lucchese.
Sempre nell'Archivio di Stato di Lucca troviamo inaspettatamente
Terrinca
in un'inedita citazione nell'Estimo di Camaiore del XIV secolo, a
far intendere come essa in realtà costituisse un corpo autonomo
difficilmente inquadrabile dagli stessi estensori degli estimi.
- L'alpe
del paese dunque, in tale ottica, era il polmone pulsante della
comunità, che portava ossigeno (in questo caso pascoli e terra
fertile da poter utilizzare durante i torridi mesi estivi) alla
magra ma dignitosa economia di quella popolazione.
- Gli
alpeggi del retrocorchia, vasti e ricchi di legname e acqua,
rappresentavano la vera ricchezza di quella gente, unita in
un corpo unico da secoli e secoli di cuItura comunitaristica,
cementandone i legami sociali e favorendo quella laboriosità che
da sempre contraddistingue i terrinchesi.
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Da
lassù provenivano le forme di formaggio pecorino più grandi e
saporite del Capitanato, di cui il Campana alla fine del
Settecento ebbe a dire: “di bontà quasi simile al parmigiano”
("Analisi Storica Politica Economica sulla Versilia
Granducale del `700", vol. ll, p. 131).
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Lassù
si formarono quegli uomini e quelle, donne che ancora il Campana
ebbe, tra le altre cose, a definire: “...piuttosto caparbi
anzichè no e rozzi, ma onorati e di una corporatura molto robusta
e si legge nei loro volti la purità dell'aria che respirano; si
esercitano nel lavorare le proprie terre più che le altrui e
nell'esercizio pastorale, essendo questo il villaggio più ricco
delle montagne...”. I ricordi di migliaia di paesani, anche
una volta trasferitisi al piano, o in paesi stranieri, sarebbero
rimasti intrisi di quei profumi, di quelle frescure, di quelle
sensazioni scaturite all'ombra del Corchia e del Freddone, come il
paiolo della polenta sul fuoco, nelle aie delle caselle,
accanto a grandi alberi di noce o secolari faggi.
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Lorenzo
Marcuccetti (“San Giovanni Battista in campanice” pag.
12)